
Parole e silenzi nell’«Innominabile» di Vita Accardi
La catastrofe della parola e poi la consolazione del silenzio. Così Vita Accardi ha costruito la messinscena del suo Innominabile (ieri la prima al Teatro Sala Uno di Roma, in scena fino al 7 febbraio) facendo seguire ai frammenti tratti dal romanzo beckettiano scritto tra il 1949 e il 1950 una trasposizione per il teatro del teleplay Nacht und Träume (due attori gemelli nel ruolo del sognatore: Maurizio e Tonino Panimolle). Prima, appunto, le intermittenti doglie di una voce che non si decide a nascere, chiusa nel suo reiterato soliloquio (ricordiamo che il protagonista del romanzo è un essere, non meglio definito, seduto all’imboccatura di un buio corridoio che racconta a se stesso storie in cui il confine tra narratore e personaggio si fa sempre più labile. Le ultime parole, in bilico tra minaccia e speranza, sono «Non posso continuare. E io continuo»). Poi, dopo il trauma, il Träume, il sogno di una mano che accarezza, porge un calice per dissetare, asciuga il sudore della fronte.
La prima e la seconda parte della messinscena sono realizzate con grande rigore formale. Tutto – voce, scene, musica – esprime l’ossimoro di una tensione statica, il brulicare di questa «polvere verbale che non conosce un piano dove posarsi né un cielo in cui dissolversi». Brava la Accardi a mantenere la sua voce in uno stato di costante e tormentata dolcezza, a cui torna dopo brevi increspature fatte di sussurri o stentoree impennate (dopo lo spettacolo l’attrice mi racconta che ha volutamente espunto dal testo tutte le “storie” de L’Innominabile, limitandosi a lavorare solo sulle frasi di raccordo, sulle vertiginose riflessioni del protagonista. Tenendosi giustamente le parti migliori del testo, a mio parere).
Le musiche di Alvin Curran sono fili sonori su cui la voce di Vita Accardi cammina come un equilibrista nel buio. La scena, realizzata da Nunzio, è costituita da gigantesche lastre di piombo che si muovono impercettibilmente, rimandando sì allo spazio fisico descritto nel romanzo, ma anche alla cassa zincata in cui Beckett ha tentato di seppellire la parola o alle pagine di un libro impossibile.
Nell’immagine: un momento dello spettacolo