È morto Carlo Fruttero

È morto Carlo Fruttero

Ieri, all’età di 86 anni, è morto Carlo Fruttero. Era noto soprattutto per i romanzi scritti in coppia con Franco Lucentini, ma Fruttero è stato anche direttore di collane editoriali e traduttore. Ed è soprattutto in quest’ultima veste che noi appassionati di Beckett lo ricordiamo. Carlo Fruttero, infatti, era il teatro di Beckett in lingua italiana avendo lo scrittore torinese tradotto pressoché tutta la drammaturgia beckettiana.

Con incredibile lungimiranza, già nel 1956, Fruttero scriveva:

Non stupisce che Godot (come prova un romanzo uscito di recente in una nota collana di «gialli» francese) stia entrando nella mitologia popolare, e si avvii a diventare un’espressione idiomatica. Come quello di Joseph K. il suo nome vorrà dire, d’ora in poi, molte cose. (1)

Di Beckett Fruttero tradusse solo il teatro (e i testi per la radio e per la televisione), mai testi narrativi o in versi. Non so se dietro vi fossero motivi contrattuali o scelte editoriali, ma sicuramente per Fruttero la grandezza di Beckett era tutta nel teatro. Sosteneva che se Beckett si fosse limitato ai romanzi non lo avremmo considerato quel genio del Novecento che invece è. Proprio a proposito del Novecento, in un’intervista a Giancarlo Alfano (2), Fruttero dichiara:

Quel secolo lì più di così non poteva dare, ma ha comunque dato il suo Shakespeare, che è Beckett, che è uno che non aveva paura di metter su Fin de partie. Ecco, questa è una storia di re e sudditi, tutta giocata in una stanza, senza l’esercito che arriva o la foresta che si muove. In sostanza è questo quello che avrebbe potuto fare Shakespeare nel Novecento: Fin de partie. Questo re, questa scala, questo servo, e questi due che… insomma una tragedia, che però, per come siamo ridotti, è l’unica tragedia oramai possibile.

Per dare un’idea di cosa abbia significato per Carlo Fruttero essere stato uno dei più impegnati traduttori italiani di Beckett riporto un ampio brano (3) in cui l’autore torinese racconta il suo lavoro sui testi beckettiani:

Negli ultimi anni, quando il suo editore o il suo agente annunciavano l’arrivo di un nuovo testo di Beckett, era lecito aspettarsi una busta con un foglio bianco, se non vuota. Ma le poche parole che poi effettivamente si trovavano nel magro dattiloscritto avevano un peso aureo, una densità via via più arcana e intraducibile.

L’intraducibilità di Beckett non è subito evidente, perché egli usa parole comunissime e una sintassi ormai al di là di ogni sperimentalismo. Il traduttore se ne crede padrone – gli equivalenti sono tutti lì, pronti per essere trasposti – e si mette spensieratamente all’opera. Ma una sottile scontentezza comincia a roderlo: la situazione è semplice, il plot, se così lo si può chiamare, è chiaro, i dialoghi non hanno nulla di indecifrabile. Ma il risultato della traduzione sembra un po’ piatto. Si vanno a controllare certe interiezioni, le sfumature di un’ingiuria, un hélas che di colpo sembra essenziale conservare in v.o.; e si passa a indagare come Beckett abbia tradotto se stesso dal francese in inglese e viceversa, che cosa abbia modificato emigrando da una tradizione, da una cultura all’altra, quali sfumature abbia dovuto precisare o abbandonare nel transito; e la notizia che l’autore stesso si sia bloccato per circa un anno sulla versione inglese (dal francese) di Finale di partita non è certo incoraggiante.

Dietro ogni singola parola si intravede, e poi si vede con crescente sgomento, una meticolosità ferrea, fanatica, che non lascia al caso neppure una virgola. È come accorgersi che quello stringato capannone per rottamature è opera in realtà di Brunelleschi. Una simile scoperta ha sul traduttore un effetto paralizzante. Nulla più suona giusto e l’unica soluzione seria che si fa luce tra tanta avvilente impotenza a volgere questi testi, questi suoni, in italiano, è di riprodurli tali e quali, di descriverli nell’originale, identici, come Pierre Menard fece con il Don Chisciotte.

Ci si deve poi naturalmente accontentare di compromessi, sia pure raggiunti nei casi più irti col benevolo soccorso di Beckett, un uomo di cui i ritratti rendono piena giustizia all’affascinante, scosceso profilo, allo sguardo assoluto, ma non all’elegante fluidità di modi e movimenti, tra gli spigoli del suo piccolo appartamento parigino dietro il carcere della Santé, spoglio, nitido, metallico, quasi ospedaliero. E della sua indulgente amabilità verso un giovane incosciente e ignorante conservo uno di quei ricordi che bruciano per tutta la vita. Gli chiedevo chi fosse la misteriosa Effi nominata in uno dei suoi testi. Ma era Effi Briest! Non conoscevo il romanzo di Fontaine? No, non lo conoscevo, dissi senza arrossire. Beckett, altissimo, fragilissimo, sorridente, mi consigliò vivamente di leggerlo, quella povera eroina gli stava a cuore più di Emma Bovary. Presi nota, pensando a una preferenza eccentrica di un grande scrittore forse un po’ snob. Arrossii dopo, e ancora dopo tanti anni arrossisco, con una certa indulgenza, ma irrimediabilmente, hélas.

(1) Dalla prefazione alla prima edizione italiana di Aspettando Godot, Einaudi, 1956;

(2) G. Alfano, A. Cortellessa (a cura di), Tegole dal cielo. L’«effetto Beckett» nella cultura italiana, EDUP, 2006

(3) C. Fruttero, Nel silenzio di Beckett (pubblicato in S. Beckett, Teatro completo, Einaudi/Gallimard 1994)